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Una ciotola di rAmen con i Duocane

I pugliesi Duocane si sono formati nel 2019 grazie a Stefano Capozzo (basso e voce) e Giovanni Solazzo (batteria). Il duo ha all’attivo due Ep, Puzza di Giovani (2019) e Sudditi (2020), e due album Teppisti in azione nella notte (2022) e rAmen (2024) con i quali hanno consolidato un sound graffiante in bilico tra noise, alternative, rock e punk, cantato rigorosamente in italiano.

Ciao ragazzi, ci raccontate la genesi della band? Come vi siete conosciuti?

Ciao, la band nasce nel 2019 quando Stefano decide di regalarsi finalmente un basso per il suo compleanno dei ventinove e contestualmente Giovanni gli propone di suonare insieme. Un mese dopo eravamo già in studio per registrare Puzza di Giovani, il nostro primo Ep.

Ci siamo conosciuti nel 2005, rispettivamente avevamo 15 e 20 anni, eravamo giovani e quella “puzza” a cui fa riferimento il titolo del primo Ep si respirava parecchio ed era un bene. Cerchiamo di preservarla nonostante qualche utilizzo di shampoo e balsamo.

Qual è il vostro primo ricordo legato alla musica?

S: Due ricordi principalmente: mia madre che mi cantava le canzoni per farmi addormentare e una audiocassetta regalata da mio zio a me e mio fratello; un lato aveva The Wall e l’altro  Elio e le Storie Tese Samaga Hukapan Kariyana Turu.

G: Io non ho principali ricordi legati alla musica, in famiglia non se ne ascoltava molta. Non ho idea da dove mi sia venuta questa fissa della batteria, ricordo che mia sorella ascoltava i Take That, quindi non proprio un humus fertile in famiglia, ecco. Come ricordo musicale mi sento di riportare il momento della mia vita in cui per la prima volta ho ascoltato gli Area, mi parve di venire schiaffeggiato in testa, però dal di dentro. Un altro ricordo musicale “personale” che in realtà non ha niente a che fare con la musica è quando lavorai in campagna per comprarmi dei piatti buoni. Facevo l’acinino, ne parliamo nel disco.

I vostri primi due album hanno una potenza sonora quasi geometrica. Quanta matematica e quanto istinto c’è dietro al vostro modo di comporre?

S: Se non ho frainteso quello che intendi per geometrico, ciò che potrebbe rendere compatto l’ascolto dei due dischi è proprio una forte necessità di ordine, inteso come qualcosa che renda equilibrata la furia creativa espressionista embrionale (che è sempre il nostro lievito madre di riferimento). Di matematico probabilmente si ritrovano delle formule creative, un po’ come quelle che teorizzava Munari quando si rapportava al concetto di fantasia; si tratta di un gioco di ordine di addendi e formule che potrebbero aprire innumerevoli strade anche con pochissimi elementi. Nei nostri lavori ci sono sempre delle cesellature finali che inevitabilmente bussano alle porte della razionalità; inizialmente però gettiamo quasi sempre una roccia di suoni e idee spontanee, che scolpiamo in una fase successiva.

G: Non c’ho capito niente né della domanda, né della risposta di Stefano. La matematica è l’unica materia nella quale io abbia mai preso un debito. C’è molto istinto nei Duocane, la riflessione viene dopo, e non è poca. Se il pezzo lo richiede siamo capaci di starci a sbattere la testa sopra anche per mesi. Ma ovviamente ci è anche capitato di scrivere un pezzo in una unica prova, nel giro di un quarto d’ora. Questi pezzi li chiamiamo di solito “i pezzi di Gesù”, perché sembra cadano dal cielo. La riflessione posteriore comunque c’è quasi sempre ed è ovviamente viziata dai nostri ascolti e dalle nostre influenze. Se ho capito bene cosa intendi per matematica e geometria, ho passato anni ad ascoltare i Don Caballero, quindi ecco, la cosa ha prodotto effetti.

rAmen è un gioco di parole tra ramen e amen, come è nata l’idea del titolo e quella della copertina del disco?

S: Nel primo periodo post-pandemico ho personalmente ritrovato in una ciotola di ramen tutte le risposte alle domande più scomode in quel momento. Cosa ti è mancato di più? Stare con gli amici.

Qual è il miglior rapporto tra calorie, gusto, senso di sazietà e prezzo? Una ciotola di ramen. Qual è la nuova religione? Il cibo. Cosa lega maggiormente da un punto di vista sinestetico le persone anche a grandi distanze? Il cibo, quello internazionale poi te lo fa capire meglio. r…Amen.

G: Ci sono moltissimi nostri coetanei che stanno perdendo gran parte del legame con il loro luogo d’origine, e la cosa dispiace, ma non in un’ottica miope di appartenenza campanilista semi-destrorsa, ma nell’ottica di una unione universale auspicabile, che passa inevitabilmente anche attraverso la salvaguardia di ciò che ci rende ognuno unico e speciale, le nostre culture e i nostri villaggi umani. Questo grosso villaggio globale si è rivelato da tempo molto diverso da come ci era stato raccontato, e qualcuno nel 2001 già lo urlava a gran voce. Troppo tempo fuori casa, ora, per sentirsi ancora figli di questa terra, per i nostri coetanei che vanno all’estero, ma al contempo troppo poco per sentirsi parte integrante della società “che conta” di una terra straniera, dall’altra parte. In questo limbo di incertezza e spaesamento, un simbolo che può riunirci in un grande abbraccio collettivo anche a migliaia di chilometri di distanza, è una ciotola di ramen. La prelibatezza che puoi gustare in viale Unità d’Italia a Bari, vicino casa mia, oppure in via Lalana Andriantsilavo di Antananarivo. Il ramen a Bari, cazzo, è così buono che gli perdoniamo di essere un prodotto della globalizzazione. C’è una frase bellissima di Gustav Mahler che dice “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri.” Ecco, rAmen nella nostra testa cerca di parlare di questo e di tante altre cose.

Poi si pensa l’ho interpretata come un attacco verso una società smart, una continua ricerca di notorietà dettata dai social. Secondo voi la musica oggi è solo divertimento o ha ancora un ruolo sociale? Che importanza hanno i social nella diffusione della musica come la vostra?

G: In realtà Poi si pensa non attacca tanto la costante ricerca di visibilità dei nostri tempi (un nostro vecchio pezzo parlava di questo, Algo Ritmo, dal nostro disco precedente, che se la prendeva direttamente con le dinamiche di visibilità social, cercando di descrivere il ridicolo e il patetismo disonesto che c’è dietro questo fenomeno). Poi si pensa se la prende più che altro con la spinta iper-capitalista al dover avere sempre da fare, al dover dimostrare di essere sempre indaffarati, al dover essere sempre più schiavi di lavoro; se la prende col fatto che anche quando non stai lavorando devi sentirti in colpa perché non lavori abbastanza ecc. Poi si pensa è un inno all’ozio e alla procrastinazione intesa come risposta all’iper-lavoro a cui siamo costretti e verso il quale la nostra generazione è stata educata. Il catechismo del dover lavorare sempre tantissimo e oltre le nostre possibilità però ora sta venendo messo un po’ in discussione dalle generazioni più giovani (che spesso adesso ricorrono a fenomeni come il quiet quitting o alle dimissioni di massa). Ma in realtà Poi si pensa cerca di parlare anche del fenomeno opposto, cercando di descrivere bonariamente e con empatia le persone che, magari come risposta inconscia alle storture della nostra società, decidono scientemente di non fare più niente. Tipo gli hikikomori. Ecco: il punto non è un ozio fine a sé stesso, né la rinuncia alla vita, ma un sano darsi da fare per fare con coscienza e  consapevolezza; fare le cose che valgono davvero la pena per ognuno di noi. Un ozio che sia fertile di idee e creatività, come quello dei romani. Affinché nessuno sia schiavo, ma tutti siano attivi e fertili in cose positive e costruttive. Poi si pensa cerca di parlare di questo.

Con la cover di Bloodstains degli Agent Orange vi cimentate per la prima volta con la lingua inglese. Cantare in Italiano è ancora un limite per essere apprezzati nel resto d’Europa? Ci potrebbe essere una svolta in inglese?

G: Sin dall’inizio ci è sembrato naturale cantare in italiano perché è la nostra lingua. Crediamo che spesso ci sia un po’ un tentativo di nascondersi nel cantare in inglese, per timore di non fare testi belli, in Italia c’è una tradizione cantautorale che ovviamente mette soggezione. Spesso magari è semplicemente più facile scrivere testi in inglese invece che nella nostra lingua madre. Per quanto ci riguarda credo che rimarremo sull’italiano. I finlandesi se ne faranno una ragione. Per quanto riguarda quel pezzo, si tratta di una cover che ci piaceva ed è divertentissima da suonare, tutto qui. Anche in passato abbiamo fatto cover, quindi altri pezzi in inglese poiché gli originali erano in inglese, ovviamente (nello specifico Golden hair di Syd Barrett e Know di Nick Drake, entrambe completamente stravolte da noi, mentre con Bloodstains degli Agent Orange siamo rimasti molto fedeli all’originale).

 In chiusura, lasciateci con un messaggio o una citazione.

Se hai una vita miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, un tuo professore, il tuo prete, Frank Zappa o qualche tizio in televisione che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti.

Forza Roma sempre.

Leggi la recensione dell’album rAmen QUI



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