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Il mondo immaginario dei Virginiana Miller

I livornesi Virginiana Miller, nati nel 1990, sono una delle più autorevoli realtà del rock alternativo italiano. Vincitori di un David di Donatello nel 2013 per Migliore canzone originale (Tutti i santi giorni) e trionfatore di una Targa Tenco nel 2014 per la migliore canzone con Lettera di San Paolo agli operai, con sei dischi alle spalle, hanno pubblicato il settimo album The Unreal McCoy il 29 marzo 2019 per Santeria, il primo interamente in inglese.

Una lunga carriera e una lunga pausa dalle sale d’incisione mettono alla prova la collaborazione di una band, come si mantiene l’unità?

La libertà è stata il collante che ci ha tenuti uniti per tutti questi anni. Ciascuno di noi ha anche un lavoro serio, alcuni hanno figli. Ciascuno di noi si è preso lo spazio che gli serviva per portare avanti la propria vita. Suonare insieme è rimasta una libera scelta: abbiamo continuato a vederci per il puro piacere di farlo, e perché l’amicizia che ci lega va oltre il fatto stesso di suonare insieme. 

The Unreal McCoy è il vostro primo album interamente in inglese, ci raccontate come siete arrivati a questa scelta?

Dopo Venga il Regno ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che avevamo detto quello che avevamo da dire, almeno in quella fase della nostra vita, in parole e musica. Occorreva un nuovo inizio. Dovevamo parlare di altri mondi, e siccome altri mondi non ce ne sono, ce ne siamo inventati uno, lo abbiamo immaginato. Se vuoi darne una lettura politica, diciamo che non abbiamo molto da dire su questa Italia piuttosto bruttina che è venuta fuori negli ultimi anni. E così abbiamo parlato dell’America, un po’ come Salgari raccontava la Malesia dal suo studiolo di Torino.

In questi anni avete raggiunto riconoscimenti e premi importanti come il David di Donatello nel 2013 e la Targa Tenco nel 2014, come ci si confronta artisticamente dopo traguardi così alti?

Abbiamo sempre saputo di parlare a una nicchia di pubblico, continuiamo a farlo, Anzi, forse con questa scelta abbiamo persino ristretto il campo.

Sappiamo di non aver mai voluto fregare nessuno. La cosa di cui più siamo fieri, riguardo alla nostra storia, è proprio questa. Siamo stati noi stessi dalla prima all’ultima nota, dalla prima all’ultima parola: The Real McCoy, come dicono gli americani.

L’immaginario si è tradotto in musica, che riscontro da parte del pubblico vi aspettate?

“Il pubblico” è come “la gente”, sono categorie fuggevoli, che vogliono dire tutto e niente. Noi proponiamo un viaggio a chi ha voglia di farlo. Speriamo di trovare chi abbia voglia di farlo con noi. A parte il prezzo del download, non ci sono neanche spese da dividere, abbiamo già pagato tutto. Siamo al volante di questa corriera strampalata, una wayward bus (per citare Steinbeck, che uno dei santi protettori di questo album) attraverso l’America immaginaria : chi sale è benvenuto. Credo ci sia da divertirsi.

Tra gli artisti del panorama musicale chi scegliete di ascoltare?

A titolo personale, ma so che questo vale solo per me e non per tutta la band, posso dirti che questo disco mi coincide con una certa stanchezza per la cerebralità della musica europea con cui mi sono formato. In altre parole, e prendila non come un giudizio di merito, ma come una semplice predilezione dell’appetito… insomma sai, come quando dici oggi il pollo non mi va, preferisco una bistecca… Ecco, trovo che un paio di canzoni di Bruce Springsteen mi facciano meglio di tutta la discografia degli Smiths o dei Radiohead.

Un album nuovo e l’incontro con il pubblico dopo sei anni, sono gli elementi di un grande evento, siete emozionati?

Moltissimo. Non ricordo neanche come si sta un palco. Siamo tutti molto preoccupati per questo. Ma in fondo è meglio provare paura che non provare più niente, no?

Leggi la recensione dell’album The Real McCoy QUI



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