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Il respiro internazionale di Soul Island

Dopo avevr pubblicato un singolo su Bad Panda Records nel 2015, Soul Island pubblica Shards.  Il primo album di Daniele De Matteis, producer italiano di base a Londra vede il disco missato e masterizzato rispettivamente dai  Matilde Davoli e Francesco Donadello (ex batterista dei Giardini di Mirò). Un ottimo esordio per  Soul Island che s’inserisce autorevolmente nell’ampio e sfaccettato panorama elettronico italiano.

Ciao Daniele! È un piacere conoscerti e, senza filtri, ti chiamo per nome, così ci mettiamo subito comodi. Parliamo del tuo album d’esordio Shards che porta la firma del nome d’arte che hai scelto, ovvero Soul Island. Dal Salento ventoso alla Londra fluorescente, un viaggio che ti sicuramente ti cambia, una scelta che sempre qualcosa costa, e molto altro fa guadagnare. Ogni artista è, soprattutto, il risultato della sua vita, quindi quanto questa tua vita, ormai oltre la Manica, ha contribuito a creare Soul Island?

Piacere mio! Soul Island è nei mie progetti da molto tempo. A dirla tutta e col senno di poi, a Londra ci sono andato anche per dare vita a questo. E si, il disco è fortemente autobiografico, ho scritto in maniera viscerale e penso che si senta parecchio. C’è tutta una mia fase di crescita dentro piena di scelte importanti ed eventi di calibro che ti segnano, nel bene e nel male. Ad ogni modo, al momento (e sottolineo al momento…) passo molto più tempo in Italia!

La tua creatura, Shards, indaga nelle trame dell’essere umano, passando in analisi le emozioni più varie che attanagliano la sua condizione: dalla nostalgia alla felicità, passando per la disillusione. Il concetto dell’uomo come isola, ristabilito in ogni epoca, che connotati ha oggi?

Mi affascina molto lo spazio interiore al 100% personale che si crea nello scrivere musica. E’ una cosa che riconosco in me stesso e molti amici musicisti. Per me si manifesta come uno spazio necessario, in qualche misura spirituale e meditativo, in cui riversare un’emergenza creativa che sento. Stare a lungo lontani da questa dinamica fa stare male, e però crescendo è sempre più difficile concedersi questi spazi, sentirsi legittimati. A me è capitato, e nel disco ci sono tracce che raccontano proprio questo disagio e che fanno parte appunto del mio percorso di riappropriazione. Una specie di outing emotivo.

Abbandonando, per un attimo, l’anima del disco, vorrei chiederti qualcosa relativamente alle sonorità scelte, ergo alla sua struttura. Un po’ elettronica, un po’ post-punk, una goccia di pop, come si scegli il proprio suono? E, nel tuo caso, come sei giunto alla scoperta del tuo, quello giusto per la tua intenzione artistica?

Il suono di questo disco è frutto di un lungo e appassionato lavoro di ricerca di strumentazione, un sacco di compra-vendita di synth, il quasi abbandono auto-imposto della chitarra (che è sempre stato il mio strumento), ma soprattutto di tanti ascolti, di dischi che ho adorato. Ho cercato un suono elettronico che io credo onesto, autentico, tipo usare il Juno quando vuoi sentire il Juno, e il modulare quando vuoi sentire il modulare, evitando i plugin. Penso che questa cosa derivi dal mio passato fortemente punk-hardcore, che si porta dietro una certa etica. Certo arrivare a questi suoni è stato un percorso costoso :D, quindi ho dovuto organizzare bene le mie proprie priorità!

Siamo sempre influenzati da qualcosa che abbiamo letto, studiato, vissuto o anche solo sognato. Detto questo, quali sono i movimenti musicali che maggiormente hanno consolidato e plasmato la tua espressione musicale? E a quali avresti voluto appartenere?

Come ho detto il punk, hardcore, l’ondata “post” anni 90. Di questa scena ho fatto parte e molto di quello che scrivo penso derivi da lì. Però devo un sacco anche al songwriting intimista, da Elliott Smith al brit-folk anni ’70, Nick Drake, O’Sullivan, oppure al power-pop di band come i Big Star o i Cheap Trick. Mi sarebbe piaciuto vivere queste due cose, mi ci sarei trovato benissimo. Poi c’è tutta l’elettronica che ho sempre seguito e adorato, sono musicalmente agnostico, dalla vaporwave alla roba leftfield, se spacca spacca.

Il respiro sonoro del disco è, decisamente, internazionale, caratteristica che lo rende ‘riconoscibile’ anche oltre il nostro Paese. Consapevole che, con molta probabilità, oltre che inevitabile, questa è stata anche una scelta vera e propria, quanto conta per un album avere questa capacità? Oggi più di prima, è importante travalicare i confini nazionali?

Non credo che sia di per sé importante. Sicuramente è una scelta artistica e comunicativa, su cui ha un’enorme influenza il tuo contesto di riferimento, il tuo linguaggio, costruito in anni di ascolti e di interesse. Poi mi piace pensare che la roba che scrivo è anche la mia eredità e che così si predisponga ad arrivare a più persone che scegliendo l’italiano. Penso che ci sia tutta una gamma di valori e concetti transnazionali e condivisi, dalle generazioni x/y in poi, che hanno avuto l’inglese come lingua comune. E’ questo il canale che mi piace usare.

Brexit o non Brexit: questo è il problema. Come vivi questa condizione? E cosa pensi delle sue implicazioni nazionali ed internazionali?

Terribile. Dal mio punto di vista se Brexit vedesse la luce sarebbe uno degli errori più grossi in prospettiva storica mai fatti dal Regno Unito. Sicuramente è parte di un’ondata conservatrice mondiale, se non accadesse (magari) sarebbe un bel pugno nello stomaco per i sentimenti più bassi dell’essere umano.

Il primo è andato, e anche con grande successo. Cosa hai in serbo per il futuro?

Il secondo?! 😀 Ci sono un sacco di cose su cui ho intenzione di lavorare, il problema maggiore sarà scegliere!

Leggi la recensione dell’album Shards QUI.



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