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Mario Diaz de Leon si circonda di eccellenti musicisti e compone, per loro e per noi, quattro piccole gemme, difficili da definire

Quindici anni fa apriva i battenti la Denovali Records, un’etichetta indipendente con base in Germania che è riuscita, soprattutto negli ultimi tempi, in un’impresa assai complicata: cogliere le esigenze del mercato discografico e fornire una risposta tutta sua, originale e di qualità, pur mantenendosi in qualche modo lontana dai circuiti mainstream. Musica sperimentale, elettronica, noise, ambient e neoclassica sono tutti generi molto in voga sulla scena internazionale, e il rischio di produzioni di massa e artisti sfornati un po’ con lo stampino è sempre dietro l’angolo.

Di fronte ad una domanda massiccia, da parte di una platea sempre più affamata di presunte avanguardie e sempre meno incline ad ascolti consapevoli, la Denovali è riuscita col tempo a collezionare un parco artisti selezionato e mai banale, ricco di proposte interessanti. Una di queste proposte è l’ormai navigato compositore statunitense Mario Diaz de Leon, che a fine Settembre ha offerto al pubblico il suo quarto LP dal titolo Cycle and Reveal.

L’album appartiene ad una serie di esperimenti in cui Diaz de Leon mescola elettronica e composizioni per strumenti acustici. Per quanto l’idea non sia affatto nuova, ciò che rende Cycle and Reveal interessante è l’estrema personalizzazione di ogni singolo brano: l’album si compone, infatti, di quattro tracce di 10-13 minuti, ciascuna pensata e arrangiata per un particolare strumento e per un particolare artista. La lista di collaboratori eccellenti arruolati dal compositore americano per mettere insieme Cycle and Reveal è piuttosto lunga, e non si limita alle performance ma si estende alla fase di registrazione, al mastering e persino alla cover art. Nulla è stato lasciato al caso.

La prima traccia, Sacrament, ruota intorno ai virtuosismi alla marimba del direttore esecutivo dei Talea Ensemble, Alex Lipowski, che si fa accompagnare da schizzi di flauto e incursioni di sintetizzatore per trasportare l’ascoltatore in una sorta di foresta sonora, ricolma di spiriti danzanti e seguaci di qualche culto dionisiaco. Per Labrys, Diaz de Leon arruola la fagottista dell’International Contemporary Ensemble, Rebekah Heller; il pezzo ha la rapidità e la precisione di un volo di colibrì, e si struttura come una parossistica conversazione a due tra fagotto e synth, un dibattito acceso dal quale nessuno dei due partecipanti esce realmente vincitore.

Segue Irradiance, una collaborazione con la violoncellista Mariel Roberts, nel quale viene compressa la frenetica progressione dell’intera estensione dello strumento. I primi minuti sono estremamente cupi, ricordano il passo di una pantera a caccia nella giungla, fino ad arrivare all’esplosione sonora della seconda metà, avvinghiata intorno a frenetici loop di violoncello ed incursioni indisciplinate di rumori artificiali. Chiude la fila Mysterium, scritta per il trio di fiati dell’ICE, in cui il ritualismo delle tracce precedenti viene esasperato oltre ogni immaginazione. Flauto, clarinetto e fagotto creano un’ipnotica danza a tre, che strizza l’occhio ai capolavori Gershwin e Stravinskij pur rimanendo proiettata nella dimensione post-minimalista in cui si muove solitamente Diaz de Leon.

All’ascolto si ha la sensazione che Cycle and Reveal sia a tutti gli effetti un’opera artigianale, nel senso proprio del termine: rifinita, elegante, solida, caratterizzata da una cura estrema del dettaglio. Virtuosismi acustici a parte, le sezioni elettroniche dei quattro brani dell’album sanno occupare lo spazio che gli spetta, senza mai strafare né sfigurare di fianco alle performance cariche di personalità dei collaboratori di Diaz de Leon. In sintesi, buone idee e ottime interpretazioni si mescolano nel calderone di Cycle and Reveal, e il risultato sono quarantacinque minuti di ascolto intenso, piacevole, a tratti impegnativo, difficile da mettere sullo sfondo.




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