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Ritorna il maestro del sospetto Iggy Pop, e questa volta è sicuramente Free

É sempre maledettamente difficile recensire i mostri sacri, specie se si ritrova dinanzi ad un’icona leggendaria del rock (e non solo…)

Tre anni dopo la sua Depressione Post Pop, il genio ritorna in piazza, libero da schemi, preimpostazioni e leggiadro, come se si ritrovasse in una dance hall calmierata da riferimenti jazz e blues, con l’entrata in scena dell’ottone per eccellenza: la tromba egregia di Leron Thomas e, dall’altro lato, dalla chitarrista Noveller (aka Sarah Lipstate).

Potrei iniziare dal titolo. Identificativo della mole d’ispirazione concentrata a livelli elevati all’interno di questo disco. Un lavoro dannatamente variegato, una dimostrazione di plasticità e adeguamento alle nuove istanze che giungono dal suo estro creativo.

Iggy Pop, ha dovuto, per forza di cose, dimostrarsi sempre in grado di essere all’altezza di quanto già creato, ampiamente, nel passato; è proprio qui che si frappone una rottura incisiva: essere liberi di essere quel che si è, essere liberi di esprimere ciò che si vuole, sempre, anche a 72 anni, o forse soprattutto.

Nella sua carriera costellata da successi, cadute e riprese, non si retrocede di un passo, si evolve, iguanamente, si matura, incessantemente, sempre meglio.

Free è un disco composto da una tracklist di dieci pezzi ispitati e concitati. Si parte dalla traccia capofila omonima dell’album, nient’altro che un Meta-titolo che con una spinta melodica di estrema bellezza conduce nel disco vero e proprio.

La scelta di cominciare con Loves Missing, una ballads new wave, è decisamente apprezzata. Dopo la paradisiaca introduzione si parte con la prorompenza del riff di basso stuzzicante, ritrovabile in quel simpatico ed intrigante pezzo James Bond.

Impeccabile la voce, scura ed elegante, che ben si sposa con gli assoli jazz del trombettista, e la mente arriva ad immaginare un contesto live: un tendone scintillante da sfondo, un microfono centrale, un chitarrista laterale, ed un pubblico ai tavolini che riempie un Jazz Club interazionista.

Come si direbbe in uno slang indegno, Dirty Sanchez è assolutamente una capata inimagnifica, l’assolo di tromba, l’intervento dialogico con un coro maschile pseudo-rap, è quanto di più aschematizzato possibile. Intrigante, anche sui rivoli acuti vocali caratteristici.

In Glow In The Dark Iggy risplende in uno scenario dark-noir disegnato da synth, basso e tromba, in un volteggiare tra scenari acidi e psichedelici.

L’approdo al pezzo che abbraccia il testo inedito di Lou ReedWe are the people, è sostanzialmente toccante. Iggy recita aulico e solenne su un accompagnamento di pianoforte e tromba in modalità atmosphere. La contrapposizione con la traccia successiva spiazza: la voce si incattivisce, esprime durezza e rabbia, mentre la melodia monumentale raggiunge l’etere fra echoes solenni.

Free è un disco da digerire a rate, in più ascolti, in più tempo. Quel che appare certo è che James Newell Osterberg in questo giro ha condensato tutto se stesso.

Come direbbe un profondo cultore della triade Iggy-Bowie-Reed, “Lui può”.




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