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Al confine tra Italia e Africa: I Hate My Village

Dalla passione, mai nascosta, per i ritmi e la musica africana e soprattutto dall’incontro di due eccellenze italiane come Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) nasce il progetto I Hate My Village, che vede la preziosa collaborazione di Alberto Ferrari (Verdena), voce in quattro brani.

Registrato nello studio di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), bassista e quarto componente del gruppo per il tour che partirà a breve, l’album omonimo uscito il 18 gennaio per La Tempesta, e si propone obiettivi piuttosto importanti e precisi, nonostante la brevissima durata del lavoro, di circa 25 minuti.

Evidente, infatti, la volontà di creare qualcosa di nuovo ed inedito, coniugata al rischio di finire nel calderone dell’omologazione dei tantissimi album con l’etichetta, più o meno veritiera, di “musica africana”, che stanno tanto prendendo piede negli ultimi anni. Di mezzo, il chiaro diktat di esprimere tutto ciò con lo stile che contraddistingue i protagonisti di questo lavoro.

Diversi gli esperimenti provati nell’album e non poche le strade e le direzioni intraprese, anche se non tutte concluse sempre in maniera convincente.

I brani prendono vita da jam, settore in cui i Nostri sono dei fenomeni assoluti, come dimostra il singolo Tony Hawk of Ghana, in apertura di album, o ancor meglio Acquaragia, dove la voce di Ferrari si lega alla perfezione al tappeto musicale creato dalla ditta Viterbini/Rondanini; il primo tesse le trame con il suo classico stile un po’ blues un po’ tuareg, il secondo, metronomo eccellente, scandisce perfettamente il tempo di esecuzione: il risultato è decisamente ineccepibile. Il dialogo fra i due musicisti è pregevole anche nell’ipnotica Presentiment, più prevedibile e leggibile invece in Tramp. Non riuscitissimo l’esperimento in salsa tribal funk Fare un fuoco, al contrario di Fame, probabilmente il pezzo migliore dell’album, in cui blues, psichedelia e, finalmente, Africa si fondono alla perfezione. Chiude I Ate My Village, con un Viterbini a dir poco vulcanico.

Quindi, come giudicare I Hate My Village? Il risultato è complessivamente positivo, tra ottimi alti e qualche basso. Non un album africano, nonostante la discreta influenza di quel mondo musicale riesca a farsi sentire a sprazzi, ma sicuramente un progetto interessante e curato nei minimi dettagli, con un’idea di base molto forte su cui far leva, soprattutto in vista dei live, in cui l’album può guadagnare ulteriori punti. Difficile sentirsi insoddisfatti alla fine dell’ascolto, più accentuato, invece, l’interesse e la curiosità per la strada che intraprenderà questo esperimento.




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