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Alberto Cipolla, tra classica ed elettronica

Nato nella provincia torinese nel 1988, Alberto Cipolla ha scritto e prodotto musiche per programmi tv nazionali, colonne sonore per film e documentari, pièce teatrali, cortometraggi e sonorizzazioni per mostre d’arte oltre a lavorare in ambito discografico come autore e arrangiatore.

Nel 2014 ha esordito con l’album Soundtrack For Movies In Your Head accolto dalla critica con ottime recensioni, mentre quattro anni più tardi ha rilasciato il secondo album Branches.

Takk, il suo nuovo singolo, anticipa l’uscita di un nuovo album, attualmente in lavorazione.

Cosa ti ha portato ad avvicinarti a questo genere musicale?
Vengo da un background di studi classici, a livello musicale. Fin da piccolo ho sempre suonato e studiato pianoforte per poi entrare in Conservatorio studiando Composizione e Direzione d’orchestra. Parallelamente però, come molti ragazzini negli anni ’00, mi ero appassionato alla produzione musicale, tra elettronica e dance, quindi il fatto che prima o poi i due mondi finissero per mescolarsi, nelle cose che scrivo, era probabilmente inevitabile. Mi piace molto, però, mischiare e ibridare i miei riferimenti, quindi quando posso cercare di inserire anche strutture più legate al pop o elementi sonori meno nettamente “neoclassici” e più affini ad esempio al post-rock e mondi simili.
Il singolo Takk nasce dal racconto di un complicato rapporto tra un padre e una figlia. Hai un ricordo della musica che ti lega a tuo padre?
Un ricordo specificatamente musicale legato a mio padre no: nessuno in famiglia è musicista e nonostante si ascoltasse sicuramente molta musica in casa (per lo più cantautorato italiano) mio padre non era un appassionato di musica di quelli che hanno collezioni di dischi e quant’altro, così come mia madre. I miei ricordi musicali familiari quindi, più che essere legati a una canzone, un’artista, dei concerti ecc, sono più che altro legati a particolari esperienze. Senza pensarci troppo direi banalmente il fatto che, per alcuni progetti in cui suonavo e che apprezzava molto anche mio padre, veniva a sentire tantissime volte i concerti, anche se la scaletta era sempre la stessa, per supportare. O quando durante gli esami di clausura per Composizione (dove si stava per 18 o 36 ore chiusi in aula) veniva nottetempo a portare generi di conforto o banalmente per esserci alla fine dell’esame e sapere com’era andato.
Ascoltando Takk viene subito in mente la maestosità dei Sigur Ros e le melodie malinconiche di Olafur Arnalds. Come è nato il brano e quali sono i musicisti a cui ti ispiri principalmente?
Beh, come può far immaginare il titolo, Takk ha effettivamente un legame con l’Islanda. La prima idea è nata dalla lettura di un romanzo ambientato in Islanda di cui Takk (che vuol dire “grazie” in islandese) è il nome di un personaggio. Leggevo mentre ero sul treno e durante una delle scene più commoventi del libro ho come avuto immediatamente in testa il tema principale del brano, come fosse una colonna sonora.
Sigur Ros e Olafur Arnalds sono sicuramente tra le mie ispirazioni principali e in generale devo dire molto dell’immaginario musicale islandese o generalmente nordico è qualcosa che sento molto vicino. Oltre a questi due nomi, un’ altra grande fonte di ispirazione è da sempre Yann Tiersen, ma anche gli Arcade Fire, Mogwai ed Exposions in the Sky (per uscire dal territorio più vicino alla neoclassica). E sicuramente i compositori e pianisti della seconda metà del XIX secolo sono tra gli ascolti che più mi ritrovo simili, come stile e filosofia.
Il suono del tuo pianoforte è il riflesso della vulnerabilità umana, allo stesso tempo dona una sensazione di conforto e rilassatezza. Come sei riuscito ad ottenere una narrazione così immaginifica in Takk?
Credo che sia dovuto al fatto che scrivo spesso “per immagini” cercando di far fiorire le idee, o svilupparle, ragionando come se stessi scrivendo una colonna sonora. In questo caso specifico, poi, avevo davvero effettivamente una scena che mi scorreva in testa durante la lettura e quindi c’era un canale ancora più immediato tra le sensazioni che mi restituiva ciò che stavo leggendo e la musica che immaginavo ne facesse da sottofondo.
Per dare ancora più risalto all’emotività ho scelto quindi di affiancare il suono caldo dell’orchestra d’archi, al pianoforte, anziché il solo quartetto come faccio di solito, lasciando da parte interventi di synth e simili.
Cosa rappresenta per te il pianoforte e che rapporto hai con questo strumento.
 
Odi et amo. Scherzi a parte, è ovviamente il mezzo più immediato con cui riesco ad esprimermi musicalmente e a buttare fuori quello che ho bisogno di buttare fuori. Non sempre il mezzo più adatto a scrivere: negli ultimi anni trovo mi sto trovando meglio, in realtà, a scrivere senza più partire dal piano per evitare automatismi e di cadere in soluzioni che ho già esplorato. Ma resta comunque la mia “comfort zone”.
Hai diretto l’orchestra a Sanremo e collaborato con grandi artisti della scena musicale e cinematografica italiana e internazionale. Qual è la collaborazione che ti ha dato più soddisfazione? Hai qualche aneddoto in merito da poterci raccontare?
Sanremo è stata sicuramente un’esperienza importante su un palco con enorme visibilità e ha indubbiamente aiutato ad aprire delle porte. Se dovessi pensare, però, negli ultimi anni alle collaborazioni che mi han più lasciato qualcosa credo ne menzionerei in primis due in cui ho messo mano come orchestratore e collaboratore di Dardust, ovvero la Notte della Taranta 2022 (perché l’Orchestra Popolare è formata da musicisti e cantanti eccezionali e abbiamo davvero avuto modo di divertirci moltissimo sia musicalmente, mischiando la tradizione salentina con tantissime altre cose lontane da quell’immaginario senza troppi limiti, sia umanamente), e il tour di Elisa An Intimate Night (per la possibilità di poter lavorare su brani così belli e delicati scoprendo anche il bellissimo lato umano di una cantautrice di cui avevo già grande stima artistica). Non è il nome di un “big” della scena italiana ma sicuramente negli ultimi anni una delle collaborazioni di cui sono più soddisfatto è quella con la compagnia teatrale torinese “Casa Fools”: aver scritto le musiche di scena per il loro Troiane lavorando in maniera non così usuale, a strettissimo contatto con regista e cast, con il testo teatrale ancora in fase di scrittura, ha fatto sì che praticamente scrivessimo lo spettacolo insieme ed è sicuramente il lavoro in cui sono stato più libero di fare ciò che volevo, senza dover tener conto di particolari paletti ed esigenze, degli ultimi anni.
L’aneddoto divertente lo riservo al mio primo Sanremo, nel 2020. L’anno di Morgan e Bugo. Nonostante fossi tutte le sere nel backstage dell’Ariston, proprio la sera della celeberrima “le brutte intenzioni” sono rientrato prima in hotel perché stanco e ho assistito alla famosa scena dalla tv anziché essere lì dietro per sapere con esattezza cosa fosse successo: i miei amici non me lo perdonano ancora.
Perché secondo te la neoclassica in Italia ha acquisito una connotazione “popular” tanto da farla apprezzare anche ad un pubblico lontano dal mondo classico?
In primis, credo che sia perché la musica classica sia assolutamente un genere (chiamiamolo così, per comodità) che non è “per vecchi” o che si possa ascoltare solo se si hanno delle competenze. La musica classica era, più o meno, la musica popular dei suoi tempi. Il pubblico non è stupido e se lo si fa avvicinare alla classica senza farlo sentire ignorante ma, anzi, trovando i ganci che possono metterlo in risonanza con determinate cose (possono essere storie, aneddoti, fatti interessanti) capisce che la classica parla a lui ancora oggi come gli parla la musica pop. Un esempio lampante sono le colonne sonore.
E credo che forse sia anche questa una chiave che ha fatto sì che la neoclassica si stia sdoganando: il fatto che sia sempre più utilizzata in sonorizzazioni, sincronizzazioni, e che unisca un feeling che all’orecchio suona “elegante”, come la classica appunto, con delle sonorità più moderne e vicine all’elettronica la renda interessante e alla portata di qualunque ascoltatore contemporaneo.
Stiamo vivendo un periodo buio tra pandemie, guerre e crisi climatica. La musica, si sa, è capace di smuovere l’umanità. Che ruolo può avere un artista in questa situazione?
Credo che il dibattito su quale sia il ruolo dell’arte e dell’artista sia aperto e mai chiuso dalla notte dei tempi, quindi poter dire con certezza quale debba essere il ruolo degli artisti nei tempi difficili (ammesso che siano mai esistiti nel mondo dei tempi tranquilli) è davvero complesso.
Di sicuro però gli artisti sono visti per qualcuno come punti di riferimento, e più in generale l’arte – a livello popolare – se proprio non fa smuovere le coscienze può comunque quantomeno allietare, far distogliere il pensiero dai vari orrori.
Per questo credo che essere artisti oggi sia qualcosa che vada preso seriamente e non soltanto in maniera “egoistica” per sfornare canzoni, fare i numeri ecc. ecc.
Credo ad esempio che sia giusto esporsi e parlare, o nei propri lavori o nelle proprie dichiarazioni, di società, di ciò che si ritiene ingiusto, in generale di non essere indifferenti e usare la propria voce, consci che proprio perché per la figura che si ricopre si può essere di stimolo e ispirazione per gli altri. E qualora invece non ci fosse una particolare propensione a questo tipo di esposizione, quantomeno essere consci che con la propria arte può essere di sollievo e di svago in un momento in cui davvero sembra che il mondo stia andando sempre peggiorando, e quindi metterci tutta la cura possibile e fare le cose bene, mettendo in maniera onesta il proprio io, lasciando da parte i ragionamenti da businessman.


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