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Fear Inoculum: la distruzione delle norme spazio-tempo

Il 30 agosto 2019 muore l’ansia collettiva che aveva accompagnato per 13 anni l’attesa del nuovo album dei Tool. È la data di uscita di Fear Inoculum, probabilmente l’album più atteso del decennio, una chimera che pareva essere irraggiungibile a causa dei continui annunci (con le rispettive smentite) della band.

Un tormentone che se da una parte ha fatto crescere sempre di più l’asticella dell’hype generale, dall’altra ha creato delle aspettative a dir poco mastodontiche.

Impossibile parlare di attesa ripagata o meno: dopo un arco di tempo così lungo l’ascolto del nuovo album del gruppo statunitense è quanto di più personale e soggettivo ci possa essere. Ne rimarrà sicuramente deluso chi voleva il nuovo Lateralus, così come chi si aspettava un’evoluzione completamente nuova dei Tool. Un’evoluzione che a dir la verità c’è stata in parte, con un passaggio stilistico volto completamente al progressive metal, lasciando da parte l’alternative, ma che non cambia radicalmente il sound e la natura del gruppo.

Anzi, a dir la verità i Tool distruggono ogni norma spazio-tempo: Fear Inoculum è il perfetto continuo di 10,000 Days, al punto che sembra essere stato scritto il giorno dopo e non a tredici anni di distanza.

La title-track in apertura d’album è un lampante biglietto da visita, una progressione tribale e psichedelica che fornisce tutte le indicazioni per approcciarsi alle atmosfere dell’intero album. Le percussioni di Pneuma ricordano Larks’ Tongues in Aspic dei King Crimson, e si mette in luce per l’ennesima volta il talento di Danny Carey, in grado di fornire l’ennesima prestazione sontuosa della sua carriera, come mostra anche Invincible, un climax di percussioni fuori di testa e riff taglienti di Adam Jones, forse il vero protagonista dell’album.

Il chitarrista dà prova di una maturità inaudita e si erge nelle numerose e lunghe parti strumentali dell’album. A questo proposito 7empest, traccia migliore dell’album e in generale tra le più convincenti mai scritte dal gruppo, è il tripudio del suo estro, in grado di far ritrovare la violenza vocale anche a Maynard James Keenan, che negli altri brani perde la sua classica rabbia per far spazio ad un uso più ponderato della voce, in questo album più che mai uno “strumento” in più su cui far leva, com’è evidente in Culling Voices, dalle tinte introspettive e malinconiche.

Fear Inoculum è un ritorno in grande stile, l’ennesima mossa corretta di un gruppo che non ha mai sbagliato un colpo. Sicuramente sarà il lavoro più discusso dei Tool, sia per ciò che rappresenta l’album in sé, sia perché è oggettivamente difficile approcciarsi a Fear Inoculum senza voler trovare necessariamente dei punti d’incontro con i dischi precedenti dei Tool. Ma a mente sgombra e con una certa predisposizione, ciò che rimane è un ottimo lavoro.




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