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Alla ricerca del tempo perduto: le epifanie di Disquiet

Chi mastica la musica dei Necks è ormai abituato alle sfide che il trio australiano pone di tanto in tanto, sia da un punto di vista meramente sonoro sia per quanto riguarda il minutaggio. Maestri di lunghe suite di stampo avant-garde jazz, non si sono mai tirati indietro anche quando sembrava impossibile spingersi ancora più avanti; eppure, il nuovo Disquiet, in uscita il 10 ottobre 2025 per Northern Spy, può risultare sorprendente e, a prima vista, respingente anche per gli ascoltatori più navigati.

Se il concetto di libertà è sempre stato una prerogativa per i Necks, stavolta siamo ben oltre: quattro brani per tre ore e dieci minuti di musica, in cui, lo diciamo da subito, non c’è un riassunto della loro lunga carriera, che annovera venti album in poco meno di quarant’anni. Tutt’altro. Ad emergere, infatti, è la volontà di continuare a rinnovare un suono che è sempre stato in continua evoluzione e che, mai come stavolta, sembra essersi spinto in direzioni poco battute precedentemente.

Dopo le astrazioni schizofreniche di Travel (2023) e il puntinismo ambient del più recente Bleed (2024), il trio non si allontana dalle sue tipiche coordinate d’avanguardia, ma le scompone, per poi ricomporle, in modo ancora più libero e imprevedibile. Non è un caso che i tre dischi che compongono l’album siano concepiti dallo stesso gruppo in modo totalmente casuale: non c’è un vero e proprio ordine d’ascolto, proprio perché ogni suite può essere tutto e niente in base all’umore dell’ascoltatore e alla volontà di approcciare l’album in modi diversi e stimolanti.

Sarebbe un esercizio futile descrivere con una canonica track-by-track un’opera monstre come questa, a maggior ragione considerando che nelle lunghe suite c’è tutto l’artigianato sonoro di cui i Necks sono maestri: la placida tranquillità che sembra sospendere tempo e musica, di cui è ironicamente permeata Rapid Eye Movement, i contrappunti delicati del pianoforte di Chris Abrahams, il minimalismo nella sua forma più iconoclasta, il jazz inteso come una scuola da cui attingere, partendo dai nomi storici di fine anni ’50 fino ad arrivare alla contemporaneità, la batteria di Tony Buck a fare da vero e proprio elemento di rottura del sound intero, anche quando gli strumenti sembrano trovare una piena fusione.

E ancora: improvvise discese nella psichedelia (Ghost Net sembra un incontro allucinogeno fra la baia di San Francisco e il krautrock tedesco), costruzioni che odorano di post-rock, il contrabbasso di Lloyd Swanton che vive di pulsazioni trasformate in battiti cardiaci, reminiscenze di totalismo improvvisamente evocate per bilanciare i momenti spiccatamente ambient.

Si potrebbe andare ancora avanti a descrivere la mole di spunti che offre un disco come Disquiet, ma si rischierebbe di superarne la durata musicale. Ancora una volta i Necks sorprendono, fregandosene di tutto: delle convezioni sonore, dell’accelerazione del mondo contemporaneo, di incasellarsi in un genere preciso. Difficile trovare un album riuscito come questo nella loro produzione recente (forse Unfold?), difficile trovare album stimolanti come Disquiet in questo 2025.



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