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La lezione di stile di Annie Clark

Più ascolto Daddy’s Home e più mi convinco che le pagine e pagine di elogi che l’editoria musicale specializzata ha riversato, fin dalle sue prime produzioni, sull’avvenente trentanovenne di Tulsa Annie Clark, nota ai più come St. Vincent, siano assolutamente meritate.

Oltre ad essere una vera e propria icona di stile, che non perde mai occasione per ribadire la sua femminilità in una maniera così spontanea e naturale, mi trovo pienamente d’accordo con chi le riconosce grande sensibilità artistica che si traduce nell’imprevedibilità di un approccio alla produzione musicale sempre in evoluzione.

Ogni disco di St. Vincent è diverso dal precedente e capace di disorientarti al tal punto da chiederti se a realizzarlo sia stata la stessa persona.

Così è per Daddy’s Home uscito il 14 maggio per Loma Vista Recordings.

Daddy’s home è un disco fondamentalmente pop ma con evidenti richiami al soul, alla musica gospel e al funk, ispirato, come affermato dalla stessa St Vincent, al sound 70’s.  Insomma tutto l’opposto del precedente Masseduction, uscito nel 2017, che al contrario volgeva lo sguardo al futuro proponendo dinamiche sonore decisamente più moderne, con l’elettronica a fare la voce grossa, lasciando che il lato più eccentrico della personalità della Clark emergesse in talvolta deliziosi orpelli estetici. In Daddy’s home quest’attitudine scompare, con la Clark che non si scompone più di tanto sia nel canto che nelle parti suonate.

Il disco si apre con  Pay your way in Pain, brano con il quale la Clark prova ad esorcizzare i demoni della sua infanzia problematica. Segue la bellissima Down and Downtown, brano con atmosfera hippie (e perchè no, semi-orientaleggiante alla George Harrison di All things must pass) dalla ritmica seducente. Si arriva così a Daddy’s Home, title track che ci permette di fare un cenno alla genesi del disco ideato in seguito alla scarcerazione del padre della Clark. Nel testo, St. Vincent racconta dell’incontro in carcere con il detenuto n.502 (il padre) al quale, tra un accordo blues e un riff funky, si rivolge con tono rabbioso ma allo stesso tempo conciliante, consapevole di non poter spezzare l’indissolubile legame padre-figlia.

Live in the dream così come Melting of the Sun sono i brani dove è più evidente l’inclinazione al sound 70’s. La prima è una ballad che propone suoni provenienti direttamente dall’era psychedelica mentre la seconda ha connotati soul.

Humming_Interlude 1 introduce The Laughing man, fantastica canzone pop, quasi ipnotica in cui le corde vocali della musicista di Tulsa celano a fatica un velo di amarezza. In una ritmata e funkeggiantela Down, che richiama alla mente il compianto Prince, invece, si rivede la St Vincent provocatrice e sopra le righe di Masseducation.

Dopo Humming_Interlude 2, è la volta di Somebody like me: anche qui, l’atmosfera è di quieta riflessione, e il brano scorre via leggero senza particolari deviazioni.

My baby wants a baby a tratti suona gospel, a tratti si atteggia a serenata jazz and blues in stile Dr John condita da fiati neanche troppo strombazzanti.

At the holiday party, finge di essere un brano acustico di soli chitarra e voce, ma ben presto subentrano l’onnipresente organo, che evidenzia la volontà della musicista di proporre un suono un pò vintage, la batteria, i cori e qualche fiato.

Sebbene sulla carta sia Humming_Interlude 3 a chiudere Daddy’s Home, di fatto è In Candy Darling,  una sorta di riflessione finale con la voce della Clark che si fa più  sensuale del solito mentre la chitarra gioca col wah-wah, l’ultima composizione di questo pregevole disco.




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