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Memory Streams dei Portico Quartet è un tiepido interludio tra la loro fase elettronica e un probabile revival del nu jazz delle origini

Negli ultimi anni, i Portico (prima Quartet, poi trio, poi di nuovo quartetto) hanno affrontato una fase di trasformazione piuttosto radicale che ha fatto storcere parecchi nasi, soprattutto fra quelli che, nella prima decade di questo secolo, ne osannavano la freschezza e l’originalità. Dal 2011 in poi, i Portico hanno intrapreso un viaggio ormai familiare a molti loro colleghi, quella traversata verso i lidi dell’elettronica che sono terra promessa per la musica dei nostri tempi; un luogo dove tutto è lecito, perché tutto è sperimentazione e scoperta.

L’esperienza elettronica per i Portico è stata in fin dei conti controproducente, perché ha alienato una parte della fanbase delle origini (perlopiù i puristi del jazz) senza acquisire sufficienti consensi sull’altra sponda, per controbilanciare le perdite. È questo il caso di Living Fields e Art in the Age of Automation, su cui la critica si è fondamentalmente attestata fra il “meh, carino” e la scrollata di spalle. A voler leggere, in quest’ottica, l’elenco su Spotify (odierno ISTAT del mondo della musica) dei brani dei Portico più ascoltati, non sorprende affatto che la stragrande maggioranza dei brani più popolari sia pre-2011. Poi arriva Memory Streams, una sorta di banco di prova per l’ensemble londinese, che con Untitled (AITAOA #2) aveva messo sul tavolo un ventaglio di idee interessanti. Il nuovo disco, dunque, si presenta al crocevia per rispondere ad una domanda di non scarso rilievo: in che tipo di musica si identificano, oggi, i quattro del portico?

Già dalla prima traccia si capisce come l’intenzione del gruppo sia di rimettersi sulle tracce del loro primo amore, quel nu jazz degli esordi che li ha lanciati sulla scena internazionale, ma con una chiave di interpretazione più matura e ragionata. La opening track è ariosa e leggera, orecchiabile nelle progressioni e nei loop di hang, ma osa poco, difficilmente si spinge oltre il recinto della prevedibilità. Già le successive due tracce si fanno un po’ più incisive, con i virtuosismi ai fiati di Signals in the Dusk e i delicati volteggi al piano di Gradient; tuttavia, siamo ancora lontani da qualcosa di veramente memorabile, nel senso stretto del termine.

Se per Ways of Seeing valgono grossomodo le stesse considerazioni spese per la traccia di apertura, mentre Memory Palace è poco più di un malinconico interludio, con Offset comincia ad intravedersi un pizzico di personalità in più: una interessante commistione di jazz ed elettronica, con sottofondi presi in prestito dall’ambient, in cui il quartetto fa largo uso di ripetizioni con l’hang e di sfuriate ritmiche, lasciando ampio spazio ad un sax più o meno ispirato. La marcetta di apertura di Dissident Gardens apre infine la strada alla conclusione: la settima e l’ottava traccia, ad essere onesti, si assomigliano tanto da risultare, a tratti, indistinguibili tra loro. Immediately Visible, che chiude la fila, viene ricordato soprattutto per gli ultimi due minuti, in cui il pezzo accelera e prende una forma definita, travalicando il confine tracciato dalle ossessive ripetizioni dell’hang drum.

In sintesi, il tanto atteso momento della verità è stato ancora una volta rimandato. Memory Streams tiene fede al suo titolo e attraversa rapidamente la nostra memoria, abbandonandola a pochi minuti dal termine dell’ascolto. Le tracce sono, come sempre, tecnicamente impeccabili, ma mancano di quel quid in più che le avrebbe rese realmente significative. È un ascolto piacevolissimo, sia chiaro, e la bravura dei Portico Quartet non è mai stata in discussione; forse è per questo motivo che sarebbe lecito, quantomeno, aspettarsi qualcosa in più.




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