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Il viaggio di Nick Murphy alla ricerca della propria identità musicale

Abbandonato, ormai da qualche anno, il moniker Chet Faker, e dopo diverse apparizioni, più o meno fugaci, nella scena elettronica, ecco finalmente Run Fast Sleep Naked, il primo attesissimo full lenght del cantautore e compositore australiano Nick Murphy, edito da [PIAS].

Si tratta di un lavoro frutto di un percorso lungo circa 4 anni, fatti di studi, viaggi, esperienze e scrittura, durante i quali Murphy, in giro per il mondo in un’intensa fase di esame di coscienza, in un processo guidato dalla lettura delle teorie di Joseph Campbell sul ruolo sciamanico dell’artista nella società, ha composto e registrato le linee vocali di questo disco in numerose e variegate locations che ne hanno ispirato le liriche, tra cui il salotto di sua nonna, il suo appartamento a Brooklyn, uno studio a Tokio o anche una casa vacanze in Nuova Zelanda. La parte strumentale del disco è invece stata registrata interamente al Figure 8 di Brooklyn.

Non era facile prevedere cosa aspettarsi ed in effetti il risultato è certamente meno “catalogabile” di Built On Glass, di cui non ci troviamo chiaramente di fronte al diretto sequel. Già il singolo Sanity, che ne anticipava l’uscita, per quanto molto ritmico e orecchiabile, lasciava intuire una certa complessità negli arrangiamenti, frutto dell’impiego di una sezione strumentale estremamente ricca.

La timbrica nu-soul / r’n’b di Nick Murphy resta inconfondibile, per quanto in molti momenti più intimista che nel passato, ma gli arrangiamenti e le strutture dei brani sono stavolta complessi ed orchestrali: a farla da padrona non è sempre l’elettronica, bensì chitarra, basso e batteria, accompagnati, oltre che dagli immancabili synth, da sezioni di archi, percussioni, cori e da altre incursioni strumentali occasionali, come pianoforte e tromba nell’intensa Believe Me (nella quale si registra anche l’esperimento del vocoder à la Bon Iver) o flauto in Some People e nell’ipnotico finale di Novocaine and Coca-Cola.

Una menzione particolare la merita Sunlight, il momento più teso del disco, in cui la sezione ritmca e i synth arpeggiati ossessivi ed incalzanti si aprono, nel ritornello, in archi dissonanti e in un inaspettato cantato al limite dell’urlato.

Tutto questo fa sì che il disco si sviluppi nel suo complesso dando l’impressione, appunto, di un viaggio spirituale che attraversa luoghi diversi, nei quali si alternano differenti livelli di emotività oltre che differenti prospettive di ricerca, che vanno comunque tutte a comporre ed arricchire la personale maturità dell’artista.

Un disco certamente non immediato, che potrebbe non convincere del tutto ai primi ascolti, ma destinato, con ogni probabilità, a crescere nel tempo.




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