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Lower River, di Michael A. Muller, è come un telo di velluto nero. Affascinanti increspature, morbidezza, infinite possibilità

Il fascino del buio, la sua capacità di evocare immagini e sensazioni e la sua potenza narrativa, confezionati in otto splendide tracce da un artista/esploratore libero da restrizioni e pastoie di sorta. Potrebbe essere questa la descrizione più accurata di Lower River, esordio da solista per il musicista texano Michael A. Muller.

Muller è particolarmente noto per essere l’altra gamba (insieme a Rob Lowe) che ha messo in moto uno degli ensemble più interessanti della scena minimalista contemporanea. Pur volendo provare a compartimentalizzare l’ascolto di Lower River rispetto alle proprie opinioni sulla musica dei Balmorhea, è inevitabile che l’orecchio di tanto in tanto guidi la mente a quei paesaggi melodici ariosi, a quelle ispirazioni druidiche e a quel profondo senso di appartenenza alla terra che hanno consacrato la band di Austin.

In Lower River ritroviamo la stessa inclinazione contemplativa, le stesse atmosfere spaziose, la stessa drammaticità quasi cinematografica di opere come River Arms o Clear Language, e risulta veramente difficile tracciare una linea di demarcazione tra l’artista in versione solista e il gruppo da cui si è (temporaneamente) staccato.

Viene da pensare che Muller volesse accantonare per un attimo la logica del compromesso, necessaria per far funzionare una band ormai di successo, e provare ad inseguire i suoi percorsi artistici con l’animo dell’esploratore. Il risultato è una versione un po’ più opaca del rock minimalista dei Balmorhea. Le melodie fluiscono più lentamente, legate tra loro da una vena malinconica comunemente associata a chi fa questo genere di esercizi di introspezione. Il lavoro di rifinitura del suono è, come sempre, sopraffino; tutto è ridotto ai minimi termini, nulla è superfluo, i riverberi leggeri si mescolano al rumore della pioggia, il vociare etereo volteggia sulle pianure di droni creando ombre bizzarre. È puro materiale onirico.

Ad ascoltare Lower River la mente si inerpica tra immagini di sentieri montani immersi nella foschia, verso cime di roccia da cui ammirare ipnotici crepuscoli. Si sente la notte che cala sui ruscelli, si vede la vita di una foresta che si risveglia tra il buio dei rami, si odorano le foglie umide e il fumo che sale dai camini delle baite remote.

Il frinire dei synth in New Simmetry accompagna la risalita lungo il fianco di una montagna fuori dal mondo, fino al punto in cui viene eseguito il rituale di Seen, e un vento gelido ci porta in dono voci provenienti da altri luoghi, forse altri tempi. Il crepitare delle foglie secche di Glyph II simboleggia la discesa tortuosa, attraverso valli infestate dai grilli di Elyria. Nella radura di Fixed Shadows, intarsiata di chiaroscuri dalla luce pallida della luna, veniamo colpiti al centro del petto da un suono di tamburo, il cuore della montagna che batte in lontananza. Recedes è l’uscita dal sogno, il momento della temuta lucidità, che ci riporta ad un presente troppo stretto per contenere l’immensità della nostra immaginazione.

Lower River è come un telo di velluto nero, steso nell’abbraccio di una cornice. È bello perdersi nei labirinti delle sue increspature, sfiorarne la morbidezza, ammirarne la capacità di catturare la luce e di spedire il pensiero verso infinite possibilità. Altrettanto affascinante è quel vago senso di inquietudine che solo la contemplazione del buio è in grado di dare, e il debutto di Muller dimostra una straordinaria capacità di catturare il buio, plasmarlo a piacimento e restituirlo all’ascoltatore sotto forma di traccia musicale.




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