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Quei simpatici mattacchioni dei Melvins

La prima cosa che vorrei chiedervi, prima ancora di ascoltare il disco è di andarvi a scovare la presentazione dei Melvins a corredo dell’album Working With God.

Ad ogni buon conto ve lo sussumo in parole “melvinsiane” e cioè: un crogiuolo di cazzate e isterismi luminescenti, tra fraseggi geniali tipo “Questo è l’album che avrebbero voluto fare Green Day e Metallica se ne avessero avuto il coraggio”. (In America ad una ‘bomba’ di tale stregua si reagirebbe con l’onomatopea “BOOOM”).

Aldilà del fattore easy-joke tipico di questa super-specie di metallari incalliti dalle dita gialle, che contorna comunque tutto l’album, è tempo di parlar di musica. E di cosa sennò?

L’album copioso inizia con una cover super-catchy di I Get Around dei The Beach Boys, ‘rivisitata’ (se così si può dire) in formula explicit (I fuck around), una cover che, per così dire, non si presenterebbe ad una serata per famiglie, hehe.

Andando oltre questo cameo da Cabrones, proseguendo lungo le tracce di Working With God ci si rende conto dello spirito iconoclasta che pervade tutto l’album. Un po’ seriosi, un po’ scherzosi, ma con una voglia famelica di ergere una bandiera punk – seppur un po’ cringe – su una montagna di immondizia.

I Melvins (dell’83) tornano in campo e si posizionano nella loro comfort zone frutto di anni di esperienza, percepisco un po’ di Houdini nella super-spettinata (un po’ psycho) Bouncing Rick, su scie hard-rock e assoli scivolosissimi che si trasformano in code super-distorte.

L’approccio older di Caddy Daddy, con riff arzigogolati e liriche aspirate, è apprezzabile sino alla fine, un pezzo da bere voracemente come si fa per uno shottino.

Nel corso della list abbiamo due coppie di tracks, di cui una parte del binomio composta da pochissimi secondi, preceduta o seguita dalla traccia vera e propria.

Brian, The Horse – Faced Goon, è un pezzo formato esclusivamente da basso e drums, portentoso.

Fuck You , invece, non la manda a dire a nessuno ma con stile: melodia orecchiabile, quasi radiofonica, da conservare e tirar fuori al momento opportuno. È il caso di dire “Grazie Melvins!”, ora saprò come agire dinanzi a personaggi da cui star lontani: imbraccio la chitarra, abbozzo un arpeggio ripetitivo, ed inizio a mandare a fanculo, un po’ come si faceva con le band del liceo nei garage di provincia.

Largo alla traccia (ehm) romantica, la chiusura è affidata a Goodnight Sweet Night, una ‘buonanotte’ che inizia con un coro pseudogregoriano da oltretomba, e prosegue poi con la movenza dissacrante da ballads anni ’50 a cappella (con tanto di beat boxing ritmico volutamente brutto).

Siamo dinanzi ad un vero e proprio gioco, o per citarli, un “treat”. Probabilmente non sarà il disco dell’anno che materialmente consacrerà il non-ritorno della band sulla scena, ma è un disco che fa ridere, che appaga, che manifesta la voglia di fare quel che cazzo si vuole.

In soldoni, un vero e proprio manifesto.




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