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Iqonde: un rito violento e martellante

Gli Iqonde sono Marco Priori (Batteria), Francesco Finelli (Chitarra/Samples) e Diego Castioni (Basso/Samples). Il trio Tribal Nerdcore from Bologna fonde le dissonanze del noise con l’immaginario dell’Africa Nera primordiale. Al debutta con Kibeho, pubblicato da Grandine Records il primo febbraio 2021, un album granitico che suona dritto e potente abbellito dai frenetici ritmi africani.

Partiamo subito con una domanda facile. Come vi siete formati e cosa significa il vostro nome.

Francesco: Io e Diego venivamo già da un’esperienza comune in un altro progetto. In quel momento suonavamo entrambi la chitarra ma a un certo punto lui è entrato in fissa con la batteria e a me hanno regalato un basso. Da lì è stato un attimo iniziare a fare qualche jam ignorante basso-batteria ed è stato così che è nata l’idea di un nuovo progetto interamente strumentale.

In realtà poi poco tempo dopo, precisamente nell’agosto 2018, l’idea è stata decisamente stravolta. Ci trovammo a fare una jam con Marco e date le condizioni indecenti in cui uscimmo dalla sala prove quella sera fu palese che la formazione ufficiale sarebbe stata a tre e sarebbe stata quella che tuttora abbiamo, con Marco alla batteria, Diego al basso e me alla chitarra. L’importante è avere le idee chiare insomma!

Per quanto riguarda il nostro nome, la parola “iqonde” viene dalla lingua Zulu e significa letteralmente “dritto”, che è un aggettivo che usiamo spesso quando descriviamo un pezzo con una ritmica serrata e incalzante. Scegliere questo nome è stata la nostra dichiarazione di intenti, ovvero quella di miscelare le sonorità noise, violente e martellanti che erano nel nostro background con altre sonorità che invece ricordassero l’immaginario tribale, che ha sempre affascinato tutti e tre. Poi a dire il vero il risultato finale non lo giudicheremmo propriamente “dritto”, in quanto i pezzi del disco sono abbastanza “storti” e non lineari… ma questo fa sempre parte del discorso delle idee chiare.

Ascoltando Kibeho si ha la sensazione che la vostra musica ruoti attorno alla sezione ritmica mentre la chitarra viene utilizzata per colorare le tracce. E’ così? A tal proposito come nasce la realizzazione di un vostro pezzo.

Hai perfettamente centrato il punto. La sezione ritmica è il cuore pulsante dei nostri pezzi e questo trova un suo senso nel fatto che ciò che ci affascina tantissimo delle musiche africane tradizionali sono proprio le percussioni, che si stratificano e incastrano fra loro in maniera unica. I nostri pezzi nascono infatti molto spesso da un’idea principalmente ritmica di basso e/o batteria a cui viene poi ricamata intorno la chitarra, che talvolta si allinea con gli altri due strumenti e in altri momenti cerca di “passarci attraverso”.

Ma’nene è il rituale indonesiano in cui i morti vengono riesumati dalle tombe per fare festa con la famiglia. Da dove nasce la vostra passione per la ritualità “nera”? Pensate che il vostro sound possa avere la stessa potenza del rituale indonesiano?

L’immagine di una dimensione rituale della musica, e in questo caso della nostra, ci piace molto ed è quello che vorremmo riuscire a trasmettere sia nel disco che nei nostri live (alla cui mancanza speriamo di poter sopperire presto).

Anche se non abbiamo una vera predilezione per la ritualità “nera” ne riconosciamo un punto in comune con il significato che ha per noi la musica, ovvero un tentativo di rivelare l’invisibile.

Edith Pias è un ossimoro: da un lato il “passerotto” francese dall’altro il vostro suono violento e granitico. Come mai la scelta di questo titolo? C’è qualcosa che accomuna la traccia con la Pias che non abbiamo colto?

La sera in cui abbiamo iniziato a comporre il pezzo, dopo aver finito le prove ce lo siamo riascoltato in una registrazione fatta col telefono. Eravamo carichi perché ci sembrava che tutto filasse in modo a noi congeniale e dal nulla Marco è saltato su dicendo “oh ragà ma perché non lo chiamiamo Edith Piaf?”. C’è stato un momento di silenzio, dopodiché ci siamo andati ad ascoltare La Vie En Rose e alla fine abbiamo decretato che non c’entrava così palesemente nulla che dovevamo per forza chiamarlo così. Sarebbe una cosa molto rock’n’roll raccontare che eravamo sotto effetto di sostanze psicotrope ma la triste verità è che ci eravamo bevuti una birretta e ad oggi Marco non ricorda più da dove gli sia uscita fuori Edith Piaf. Promettiamo che per la prossima intervista tenteremo di inventare una storia più avvincente di questa. Quindi per rispondere alla domanda di partenza: se non avete colto nulla, allora non c’è nient’altro da cogliere!

Ci menzionate cinque dischi da ascoltare per capire le influenze della vostra band.

1) Town Portal – Of Violence

2) Shipping News – Flies The Fields

3) Mogwai – The Hawk Is Howling

4) Paus – Paus

5) Ni – Pantophobie

Per una formazione come la vostra in Italia è facile suonare (ovviamente parliamo di prima del Covid) o trovare locali che danno spazio a queste sonorità è difficile nella Nostra Penisola?

Apparentemente la nostra musica non è la più semplice se vuoi trovare qualcuno che te la faccia suonare. Si, in parte è vero, ma non del tutto. In Italia ci sono tante piccole realtà che danno spazio e promuovono in varie forme la libertà artistica e la sperimentazione, e molte di queste lo fanno veramente con un cuore e una tenacia incredibili.  A volte quello di cui forse si percepisce un po’ la mancanza è un po’ di capacità di fare rete fra i diversi attori (e spesso fra i musicisti stessi) di questa scena e unire le forze per lavorare in maniera sinergica.

In futuro con chi vi piacerebbe collaborare e dove immaginate che vi possa portare la musica.

Possiamo dire con più certezza cosa NON ci può portare la nostra musica, ovvero i soldi e la f**a, ma in fondo ci piace per quello! Battute a parte, sicuramente faremo tesoro della nostra collaborazione con Grandine Records che ci ha dato grande supporto per la produzione e l’uscita del disco.

Speriamo anche di poterlo presto suonare un po’ in giro questo disco…in Italia e magari, perché no, anche fuori. Detto ciò, a nessuno di noi interessa molto in più di questo…quello che facciamo lo facciamo con la massima dedizione, sia per noi stessi sia con la speranza di riuscire a trasmetterlo a qualcun altro.  Se arriverà mai qualcosa in più, sarà tutto regalato.

Leggi la recensione dell’album “KibehoQUI



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