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La Chiamata: la collettività spiegata dai Deadburger

Reduci dall’ottimo La fisica delle nuvole (2013), i Deadburger si focalizzano negli anni successivi sulla ricerca a tutto tondo di una dimensione che va al di là di quella musicale, in grado di spaziare tanto sulla realtà quanto sul misticismo, sulla società e sull’ascesi, sull’incomunicabilità ma anche sul dialogo.

Per riuscire in questa ricerca, è proprio da una parola, “factory”, che parte l’analisi di La chiamata, in uscita il 20 novembre 2020 per Snowdonia. Infatti, nel corso degli anni il gruppo toscano ha saggiamente deciso di circondarsi di collaboratori e personalità con cui poter scambiare le proprie conoscenze e idee, fino a diventare una vera e propria Factory.

Da Enrico Gabrielli ad Alfio Antico, passando per Bruno Dorella e Lalli, il numero di musicisti nell’album è altissimo, come testimonia anche la presenza di otto batteristi. E per quanto La chiamata sia un album ricco di sfaccettature, paradossalmente sin dal primo ascolto è possibile evidenziare l’importanza del lavoro di gruppo, della collettività, anche teorica, che trasuda l’intero album.

Il misticismo, sviscerato in tutte le sue salse, compreso nel suo rapporto antitetico con il consumismo, è rappresentato dalla figura dello sciamano, onnipresente e costante, simbolicamente rappresentato anche sulla copertina. La sua presentazione arriva già dal primo brano, Onoda Hiroo, costantemente focalizzato su uno stile incalzante e senza compromessi, facile solo all’apparenza, ma che presenta, dietro le sue pieghe, intelligenti campionature ed abili passaggi ritmici.

Il contrabbasso domina Un incendio visto da lontano, ma il tessuto sonoro alle sue spalle ricorda una versione meno ruvida degli Starfuckers per la sua complessità sperimentale, ricca di noise, piano e percussioni glitch.

La reinterpretazione di Tryptich, opera di Max Roach tratta dal capolavoro senza tempo We Instint!, potrebbe sembrare un esperimento azzardato, ma i Nostri ne escono in piedi portando il brano nella contemporaneità, merito di un sapiente utilizzo di elettronica e campionature.

Tamburo sei pazzo mette in luce il genio di Alfio Antico e la sua divisione in più parti rende evidente il climax strumentale ricreato nel corso dei minuti, un calderone in cui c’è spazio, fra i tanti, per clarinetto, marimba e sax.

Ultima ma non per importanza, Blu Quasi Trasparente nella sua altalena di umori si chiude come inno, ideologico e musicale, dell’album.

La chiamata è un lavoro molto diverso da La fisica delle nuvole, al punto da sembrare l’uno il doppelganger dell’altro. Inutile, quindi, cercare necessariamente un paragone fra i due album, soprattutto quando, come in questo caso, la qualità complessiva rimane immutata.

Il progetto Deadburger si allarga più che mai, e lo fanno anche i loro orizzonti musicali, per cui, fortunatamente, non sono stati tracciati confini: una vena sperimentale che va sicuramente premiata ed elogiata.




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