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Landscape Architecture di CV & JAB è soave come la natura, etereo come i sogni e confuso come i risvegli

L’assenza di testi o di trame sonore particolarmente intricate o complesse rende album come Landscape Architecture delle vere e proprie incubatrici di immaginazione. Christina Vantzou e John Also Bennett (qui contratti in CV & JAB), due artisti già militanti nel campo del minimalismo musicale, si sono dati come obbiettivo quello di confezionare un album che richiamasse, già dal titolo, un certo tipo di estetica: spazi aperti, paesaggio, orizzonti lunghi, comunione tra il naturale e il man-made. Senza grosse pretese concettuali, il duo di compositori statunitensi ha raffinato un’intesa già ben cominciata un paio d’anni fa con Thoughts of a Dot as it Travels a Surface, cercando di dominare alcuni degli aspetti più parossistici del loro debutto insieme. Al netto di numerosissime buone idee, il primo album sembrava più che altro una collezione di registrazioni in presa diretta mescolate, di tanto in tanto, a qualche sequenza artigianale; un progetto senz’altro interessante, ma una base poco sostanziosa per una collaborazione duratura.

Con Landscape Architecture, Vantzou e Bennett provano a fare scelte più ragionate, lavorano di più sul suono nel suo complesso e provano a ritagliarsi un proprio stile musicale. Come annunciato in premessa, quest’ultimo lavoro punta di più sulla componente narrativa, cerca di raccontare una storia fatta di contemplativi passeggi e sound design al limite del surreale. Sembra quasi di vederlo, l’uomo con i suoi pensieri che incammina con occhio vigile fra suggestive strutture immerse nel verde, monoliti impossibili che ispirano meraviglia e riverenza allo stesso tempo. Canti di uccelli si alternano a rumori di strada, voci di gente o auto di passaggio, ruote sul selciato o tintinnare di stoviglie, come a voler dire che la civiltà è presente anche se in maniera rispettosa, mentre un piano aggraziato e delicato traccia sentieri che vanno sempre più in profondità.

In lontananza, tra il folto di una fitta vegetazione, si delinea un passaggio oscuro coronato di rami intrecciati che conduce verso destinazioni sconosciute. Qui i suoni si fanno più cupi, l’atmosfera diventa più irreale, suoni eterei echeggiano in sottofondo, voci sottili come nebbia e campanelle mosse dal vento. Non siamo più in una ariosa prateria o su una soleggiata collina, ma in un labirinto di siepi torreggianti avvolto in una fitta penombra. Ora il piano si fa guardingo, procede ad un passo più prudente e lascia che nelle pause prendano forma spiriti e fuochi fatui evocati da un subdolo comparto elettronico. Quando ormai siamo convinti che i sentieri del corridoio vadano avanti all’infinito, una voce di donna e un gorgheggiare violento ci indicano le svolte necessarie per uscire dall’oscurità. L’ultimo passaggio si apre su una radura inondata da una bizzarra luce dorata, al centro della quale troviamo donne leggiadre e satiri armati di flauto che danzano a ritmi sincopati. L’effetto è quasi ipnotico, e l’irruzione di una realtà fin troppo tangibile, appena un minuto dopo, è decisamente brutale.

La transizione nell’artificiale è tanto improvvisa quanto violenta, da far girare la testa. Macchine tentacolari e droni ronzanti sbucano fuori dal nulla, come attori dietro le quinte, e fanno a pezzi la scena, accompagnati da lamenti di sirene e borbottii ributtanti. Quando lo sciame ha finito di spaccare e ricomporre le immagini, ci ritroviamo a camminare in un lungo tunnel di vetro che attraversa, sembra, il fondale di un oceano. Le orecchie pulsano con costanza per la pressione dell’acqua, mentre sopra le nostre teste transitano strane creature marine, alcune piccole e traslucide accompagnate da frenetiche linee di piano, altre maestose e imponenti, il cui passaggio è sottolineato da sequenza più lente e solenni. Alla fine del tunnel, una scala ci conduce sempre verso l’alto, verso la superficie, dove la luce del sole comincia timidamente a filtrare tra i riflessi frastagliati dell’acqua in movimento.

Sbuchiamo in un enorme cortile vuoto avvolto da una nebbia diafana, seguiamo sentieri acciottolati che si biforcano e si ricongiungono infinite volte, costeggiati da busti di persone che dovremmo conoscere ma che ci sembrano così alieni da generare inquietudine. La scena sembra essere stata desaturata, gli arbusti che crescono ai lati dei percorsi sono fatti di legno bianco, le foglie hanno colorazioni rigorosamente in scala di grigio. Incrociamo figure avvolte in vesti scure, con volti celati dai cappucci, che ci superano senza un cenno. Per quanto seguano strade diverse, pare che vadano tutte nella stessa direzione, seguendo una traccia di rumori anomali e terrificanti che si fa via via più forte. Tutti i sentieri conducono ad un unico lago circolare, le cui acque sono nere come la pece; lungo la riva, le figure incappucciate si dispongono ad intervalli regolari, immobili nell’attesa, producendo suoni simili a singhiozzi che rompono di tanto in tanto un costante e infausto ronzio di fondo. Tentacoli punteggiati di occhi sorgono con insopportabile lentezza dalle acque del lago e si stagliano sinuosi contro il cielo grigio. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto questo; come se intuisse che non vogliamo prendere parte a questo immondo rituale, la musica ci conduce lontano, fuori dalla nebbia, verso un mondo dotato ancora di colori.

Mentre un sole pomeridiano fa capolino da dietro una parete di roccia, raggiungiamo il bordo di una scogliera incredibilmente alta, dove sono stati disposti, ad un passo dal vuoto, degli sfarzosi tavoli rotondi drappeggiati da tovaglie bianche ricamate. Donne e uomini attempati, vestiti in abiti eleganti e adornate da lussuosi gioielli consumano avidamente piatti pieni di ogni sorta di stranezza; cosce di satiro arrosto, affettate da camerieri in livree dorate, zuppe fumanti in cui galleggiano pinne traslucide tranci di tentacoli ai quali non sono stati rimossi gli occhi. Mentre pasteggiano, i commensali discutono animatamente, ridono e si scambiano osservazioni; di tanto in tanto un pezzo di roccia cede inghiottendo tavoli ed occupanti, un evento apparentemente normale dal momento che non viene tributato nemmeno di uno sguardo dai presenti. Il maître, l’unico del personale di “sala” ad indossare guanti bianchi ed abito a code scuro, occupa con fierezza uno ampio spazio libero fra i tavoli. Non ha la testa, ma questo non gli impedisce di mantenere la schiena dritta, il petto gonfio e le mani incrociate sul davanti, con fare autoritario.

Proseguendo a ridosso della scogliera, la strada diventa presto un declivio; la discesa è ripida e sconnessa ma entro sera si arriva sul mare. Una lunghissima spiaggia di sabbia bianca si estende fin dove arriva l’occhio, tagliando perpendicolarmente l’orizzonte, bagnata da un mare così immobile che sembra posticcio. Su un basso crinale, a qualche centinaio di metri dalla riva, sorgono rozze costruzioni fatte di tronchi di legno, dalle cui finestre filtra una tenue luce arancione. Guardando all’interno delle baite si notano tavole apparecchiate per la cena, camini accesi, rubinetti dell’acqua aperti e apparecchi radio accesi, da cui si riversano nostalgiche melodie al piano. Momenti di semplice vita quotidiana, contro le squali stride la totale assenza di persone. Tutto lascia pensare che fino ad un attimo prima lì ci fosse qualcuno, intento a mangiare, lavare piatti, attizzare il fuoco o ascoltare musiche; è come se una mano invisibile avesse rimosso d’improvviso dalla scena i suoi protagonisti, nel momento esatto in cui vi abbiamo posato sopra lo sguardo.

Ci lasciamo questo strano viaggio alle spalle, seduti sul sedile posteriore di un auto che procede spedita, senza guidatore, su una strada dritta, attraverso paesaggi via via più familiari. Dallo specchietto retrovisore si vedono le tracce di ciò che abbiamo visto, come immagini fugaci che scorrono su uno schermo. La radio accesa ci restituisce ronzii sommessi e note appena accennate, suoni eterei come i sogni e confusi come i risvegli.




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