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Anderson .Paak: un posto d’onore nella Tavola rotonda della black music contemporanea.

Due album come Breezy Lovejoy, uno con il progetto NxWorries in collaborazione con il producer Knxwledge, Venice nel 2014 ma soprattutto Malibu nel 2016, l’album che ha conferito un posto d’onore a Brandon Anderson Paak, in arte Anderson .Paak, nella Tavola rotonda della black music contemporanea.

Sembra evidente dunque quanto gli ultimi sei anni siano stati molto impegnativi musicalmente parlando per il Nostro, ma probabilmente lo è stato ancora di più lavorare a Oxnard, uscito il 16 novembre per Aftermath, dopo il successo che ha improvvisamente travolto il musicista nato proprio ad Oxnard, in California.

Un artista poliedrico, capace di spaziare da un genere all’altro con proposte raramente scontate, ma abbastanza grande e maturo da poter affrontare quello che a tutti gli effetti sarebbe l’album dell’affermazione definitiva? In realtà questa domanda non riceve una risposta precisa. Già, perché il suo ultimo lavoro va inquadrato in una maniera differente, che si pone sì come un continuo dei due album precedenti, ma con i quali converge in diversi punti: così come Malibu sembra immediatamente perfetto, al contrario Oxnard è meno immediato e la sua estetica va cercata in maniera più profonda, forse anche per il cambio di produzione, visto che quest’ultimo lavoro vede protagonista in questo ruolo Dr. Dre.

Sembra quasi paradossale, però, che nonostante ciò l’unico difetto da poter imputare all’ultima fatica dello statunitense sia proprio il fatto che non si sia discostato definitivamente dagli album precedenti, come se fosse rimasto in una comfort zone probabilmente nemmeno troppo voluta, come testimonia l’ampio numero di feat e di collaborazioni.

La traccia d’apertura, ad esempio, l’eclettica The Chase vanta la presenza di Kadhja Bonet, la successiva Headlow, pezzo decisamente più accessibile e radiofonico, è in feat. con Norelle. Segue poi addirittura un brano con Kendrick Lamar, Tints, che è però stranamente tra le proposte meno riuscite del lavoro, risultando decisamente poco incisivo per essere una collaborazione tra due artisti di un certo calibro.

Ma le sorprese non finiscono qua: c’è spazio per Dr. Dre al di fuori della produzione in Mansa Musa, la traccia che più di tutte dimostra l’amore di Anderson per l’hip hop; interessante anche Brother’s Keeper con il mai banale Pusha T, ma il vero pezzo da 90, e forse il migliore dell’intero lotto, è Cheers, con una vera e propria divinità come Q-Tip degli A Tribe Called Quest, un brano maturo, riuscito e capace di fondere a perfezione la natura dei due artisti.

Complessivamente, Oxnard è un gradino sotto rispetto al precedente Malibu ma non per questo un passo indietro, essendo a conti fatti un prodotto curato e pensato nei minimi dettagli, seppur non riuscito in tutte le sue proposte. Anderson .Paak si conferma comunque uno dei musicisti più interessanti in circolazione e non possiamo far altro che tenercelo stretto.




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